cine |
Signori, siamo davanti ad
una regista dal tocco unico, delicato, avvolgente.
Per una volta, qualcuno che fa cinema non per nepotismo.
Grande conferma dopo "il giardino delle vergini suicide" (tratto
dal bellissimo libro di Jeffrey Eugenides; qui, invece, la Coppola firma
anche soggetto e sceneggiatura, nota importante), questo "lost in
translation" è un film delicato, dai dialoghi rarefatti (ma anche
dalle gag irresistibili), dalle cose non dette (cosa sussurra Bob
all'orecchio di Charlotte durante l'appassionato abbraccio finale?).
Ci racconta di come ci si possa sentire persi e soli, in una città come
Tokio (60 milioni di persone compreso l'hinterland!!), quando non si
riesce più a capire perchè si è sposati, se non si ride delle solite
cose e ci si telefona da un capo all'altro dell'oceano per scegliere il
colore di una moquette.
Poi, d'un tratto, una persona che sembra essere come noi.
Ma, nel mezzo, oltre 25 anni di differenza.
Come possa andare il film non ce lo rivela, e forse è meglio così, anche
qui sta il suo fascino. Inquadrature mai banali (le
"panoramiche" con Charlotte seduta davanti alle enormi finestre
della sua camera del Park Hyatt e, sotto, l'immensa distesa di Tokio sono
mozzafiato), e, ripeto, un tocco tutto personale per un cinema decisamente
di gran classe.
Citazione d'obbligo per i protagonisti (il cast è ridotto, ma tutto
giusto nelle parti): Bill Murray sembra nato per essere Bob Harris, e
Scarlett Johansson da una profondità speciale al personaggio di
Charlotte.
Lunga vita a Sofia Coppola.
di: Ale |