Live |
Una
bella giornata di Giugno e una location splendida, un palco
da grandi occasioni per un pubblico che oscilla tra le 5 e le
6mila presenze; condizioni perfette per un concerto, che il
mulatto apre alle 21,45 con una versione di "Don't take
your attitude to your grave" arrangiata piuttosto sobriamente
e che quindi, fa ben sperare. Si prosegue con un pezzo nuovo
dal titolo "Take my hand", che nella strofa assomiglia
tanto alla sua "I'll rise", ma che non entusiasma
più di tanto.
Dopo
la scontata "Brown eyed blues", uno dei suoi pezzi
peggiori, con la parentesi solista del sempre mastodontico Juan
Nelson, Ben si siede e, dopo una intro alla steel guitar ci
offre "Temporary remedy"; segue un altro pezzo nuovo,
"Wicked man", che ci ricorda i Black Crowes (che Marc
Ford, chitarrista aggiunto, ex Black Crowes, stia prendendo
il sopravvento?!?!).
La
sopresa, se si escludono i pezzi nuovi, arriva con "Ashes",
da "The will to live", un pezzo non troppo gettonato
dal vivo; purtroppo l'arrangiamento lascia a desiderare, e dal
folk con reminescenze caraibiche dell'originale, si passa ad
una ballad troppo mielosa. Ancora un pezzo nuovo, "Where
Could I go", una soul ballad che ricorda "Stand by
me", dove Ben canta questo pezzo levigato più come
Michael Bolton che come uno che cerca le radici.
La
temperatura si rialza con "Glory and consequence",
il pezzo col maggior tiro dal vivo, ma l'esecuzione suona troppo
controllata e non travolge. Arriva la versione reggae di "Excuse
me Mr.", e anche se un sacco di gente apprezza, la versione
originale continua a gridare vendetta.
Il singolone/marchettone "Diamonds on the inside"
(dove Marc Ford dà quasi l'idea di non avere i diritti
per suonare l'assolo così com'è nel disco, e la
cosa lascia l'amaro in bocca, visto che probabilmente è
la parte migliore), introduce alla parte finale della prima
parte del concerto, con "Steal my kisses" e "Burn
one down", dove il percussionista Leon Mobley la fa da
padrone.
Alcuni minuti di pausa e la parte più attesa dagli affezionati
di vecchia data si materializza. Beniamino rientra, si siede,
è solo. Arrivano i sempreverdi, "Walk Away",
"Another lonely day" e la meravigliosa "I shall
not walk alone". Non c'è arrangiamento, pochi vocalizzi,
quanto basta per rinnovare pezzi che hanno ormai quasi un decennio,
ma che non perdono né di senso, né di intensità.
Dispiace
solo che i fans recenti non si rendano conto che il momento
è solenne, e necessiterebbe di religioso silenzio; e
dispiace anche non aver mai sentito harper chiederlo, questo
silenzio che, a volte, vale più di mille applausi.
Ancora
da seduto, ma con la steel guitar e il fido Leon che lo accompagna,
una bella versione di "When it's good", essenziale.
Il finale dopo alcuni minuti; "She's only happy in the
sun", dove si ha l'impressione che un po' più di
sobrietà non guasterebbe (tanti strumenti spesso diventano
ridondanti), "Amen omen" che diventa una rock ballad
qualsiasi, e "With my own two hands" in medley con
"War" di marley, quest'ultima lievemente riarrangiata
rispetto alla versione eseguita al Festivalbar (sic!!) 2003,
e alle date italiane di ottobre, ma con i movimenti del californiano
che risultano poco spontanei (essendo sempre uguali), chiudono
il concerto esattamente dopo due ore e cinque minuti.
L'impressione, una volta in più, è quella di trovarsi
davanti un artista dalle enormi potenzialità che ha smarrito
la strada. Sempre sopra la media imperante, ma senz'altro sotto
lo standard cui ci aveva abituato in passato.
Basta infilare nel lettore, tanto per fare un esempio e senza
esagerare, lo strumentale "Number three" dal terzo
disco, per capire cosa si intende.
Anche
senza parole.
di:
Ale
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