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Ariel
è di Buenos Aires, ed è di famiglia ebrea polacca;
il padre ha lasciato la famiglia quando lui era un neonato,
divorziando dalla madre e andando in Israele per la guerra dello
Yom Kippur, e lì è rimasto; praticamente vive
nella comunità ebraica di commercianti che occupano una
galleria di un centro commerciale; insieme alla madre ha un
negozio di intimo.
E’ un giovane insicuro, e non capisce perché la madre
quando parla del padre lo difende così tanto, visto che
l’ha abbandonata con la famiglia (Ariel ha anche un fratello
più grande, che ha un’altra attività commerciale
nella galleria).
A metà tra Woody Allen e Clerks, camera a mano nervosa,
Burman dipinge una galleria (appunto!) di personaggi talmente
grotteschi da essere più che reali, con quel sarcasmo
che è proprio delle comunità ebree (tanto da far
pensare che anche il regista lo sia), intreccia una serie infinita
di sottotrame, definisce i personaggi e contemporaneamente,
ci porta ad una conclusione a sorpresa che lascia affascinati
e quasi commossi.
Il
protagonista Daniel Hendler (Ariel), premiato a Berlino, è
la punta di diamante di una serie di recitazioni ben fatte.
di:
Ale
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